La storia di Oybō ha inizio una mattina di tre anni fa, durante una primavera in cui i colori e le forme della natura trionfavano. La mente di Lionello è pervasa da una domanda intrigante: “Perché non creare calzini asimmetrici?” Potrebbe sembrare una di quelle domande estemporanee, frutto della creatività del momento, ma questa ha una presa particolare perché nasce da un percorso introspettivo. La curiosità si insinua dentro di lui, facendo maturare un desiderio irrefrenabile di cambiamento, di intraprendere qualcosa di nuovo. È come un perlage creativo che continua a borbottare incessantemente dentro di lui, finché non si è dato completamente alla ricerca di una risposta.
Ma questa domanda non riguarda solo un prodotto; è molto di più. Rivela un segreto nascosto nel profondo di sé, diventando una questione fondamentale sulla propria identità e il proprio futuro. Questo retrogusto mi è rimasto in bocca anche dopo un mese dall’intervista con Eusebia Lupu e Lionello Borean, gli imprenditori di Oybō.
Oybō: l'esperienza imprenditoriale
Guardando all’esperienza imprenditoriale che ha dato vita a questa impresa, voglio tornare alla domanda di quella mattina. Nonostante possa sembrare una domanda banale, essa è solo l’inizio di un percorso esplorativo che condurrà a un’idea imprenditoriale, a un modello di business e infine a un’impresa concreta. Eusebia e Lionello, infatti, non avevano mai avuto esperienza nella produzione di calzini. Lui possedeva una solida competenza nel mondo della grafica e del design, mentre lei vantava una vasta esperienza internazionale nel campo della comunicazione e delle pubbliche relazioni.
Inizia così la ricerca di chi potesse realizzare calze asimmetriche. Il problema non riguardava solo la produzione, ma, soprattutto, la credibilità. Nonostante aziende come Gallo avessero aperto la strada alle calze colorate, convincere un piccolo artigiano a investire tempo e risorse nella produzione di una piccola serie di calze asimmetriche, con lavorazioni particolari e sofisticate, si rivelava difficile. Questo era ancor più complicato considerando che Eusebia e Lionello provenivano da un settore diverso. Tuttavia, non si sono scoraggiati. Il primo passo li ha portati a bussare alle porte degli artigiani nel distretto della calza di Brescia. Ma, purtroppo, molti si sono mostrati poco inclini a mettersi in gioco e hanno richiesto quote elevate per permettere la sperimentazione di un’idea.
Il processo di ricerca li ha invece condotti verso una piccola impresa artigiana a conduzione familiare nella provincia di Padova. Il figlio del proprietario, diversamente da altre realtà, ha appoggiato incondizionatamente il progetto Oybō. Quest’ultimo ha catturato immediatamente l’interesse del giovane, forse perché si intrecciava con il suo percorso di ricerca. La crisi economica stava mettendo a dura prova numerose imprese, ma era ormai chiaro che occorreva un cambiamento nel modello produttivo e non bastava più solo ottimizzare la capacità di produzione. Il progetto Oybō, infatti, ha risvegliato il vero significato del lavoro artigiano: una profonda attenzione alla qualità dei materiali e la capacità di settare e modificare le macchine per ottenere lavorazioni sofisticate. L’artigiano si è sentito in sintonia con l’idea e si è dedicato anima e corpo, sacrificando i Sabati e le Domeniche e ogni momento libero per trovare il modo di “industrializzare” l’ispirazione di Eusebia e Lionello.
apprendere dall'interazione con i clienti
Con l’idea industrializzata, è arrivato il momento di venderla. In questo contesto, non ci sono dubbi: la rete offre l’opportunità di abbattere i costi di avvio e di testare immediatamente la rispondenza del mercato. Ed è qui che entra in gioco l’esperienza di Eusebia. Lei possiede un approccio istintivo verso i social media, quasi come se fosse nata per farne parte, senza alcun segreto. Nessuna pianificazione o programmazione, ma la capacità di cogliere l’ispirazione del momento e di essere creativamente coinvolgente o coinvolgentemente creativa. Il suo approccio, tuttavia, non è ingenuo riguardo ai social media, anzi! La sua maestria nella gestione dei canali social e nel conferire al marchio tratti amatoriali deriva da una profonda consapevolezza che solo chi ha vissuto a fondo l’esperienza può avere. È come un artigiano della Rete, in grado di smontare e rimontare il motore ad occhi chiusi.
In questa fase, codificare una strategia di brand e di social media avrebbe l’unico effetto di limitare la creatività. Sarebbe come definire un percorso sicuro che, successivamente, diventerebbe difficile da abbandonare. Meglio, quindi, continuare a sperimentare, apprendere dall’interazione con i clienti e costruire insieme a loro il valore e il significato del brand Oybō.
Oybō: instagram low budget e tanta passione
Nello scoprire Oybò e il loro affascinante mondo di calzini spaiati e colorati, ciò che affascina da subito è la loro abilità nel raccontarsi attraverso immagini, video, colori e le coinvolgenti storie dei loro clienti, quasi facendoli sentire amici.
Mi sono chiesto se dietro questo brand dal forte carattere umano e ironico ci fosse un’agenzia di comunicazione importante e un budget consistente. Ho scoperto invece che dietro tutta la comunicazione c’è solo l’iPhone dei suoi creatori e il risultato di una grande passione, intuito e creatività. Sono partiti con la comunicazione senza alcun budget e ancora oggi sono loro a curare le foto e i video, montandoli con Imovie. Tutto ciò che vediamo sui social è frutto della loro dedizione e creatività “fatta in casa”, nonostante i risultati eccellenti che ottengono.
La loro abilità nell’adattarsi e arrangiarsi nasce da una visione personale della moda, lontana dal glamour artificiale delle passerelle. Per loro, la moda deve avere un’anima umana e imperfetta, e vogliono che questa essenza emerga dai loro scatti e video.
Una chiave del loro successo è senz’altro il passaparola, amplificato dai social network e soprattutto da Instagram. Non si aspettavano di avere così tanti clienti ambasciatori spontanei di Oybò, e in breve tempo si è creata una community di #oybofriends che pubblica e condivide i loro calzini sui social.
La spiegazione di tutto ciò è semplice: chi acquista Oybò si diverte a indossare calzini spaiati e non vede l’ora di condividere questa particolarità. Instagram è diventato “l’universo del loro marchio”, in cui credono fin dall’inizio, essendo un social veloce, immediato e universale nella sua comunicazione.
Oybō: una storia con tre lezioni
E veniamo alle conclusioni. Io credo che questa storia contenga tre grandi lezioni.
La prima lezione è che le start-up si costruiscono dal basso. Sono d’accordo con Steve Blank quando scrive, nel suo libro con Bob Dorf, che trattiamo le start up come delle piccole imprese. Per cui, caliamo gli strumenti tipici della grande impresa, come il business plan e/o il modello di sviluppo del prodotto a cascata, in un contesto dove il mercato è ignoto o peggio ancora da costruire.
Diversamente, come suggerisce lo stesso Blank, le start up sono organizzazioni temporanee alla ricerca di un business model replicabile e scalabile. Per cui, nella prima fase, le start up devono verificare se esiste un mercato per la loro idea. Per fare ciò, non possono fare indagini di mercato, ma devono uscire dai propri uffici e confrontarsi direttamente e continuamente con i loro clienti. Devono adottare sistemi di prototipazione rapida per raccogliere fin da subito i feedback dei loro clienti sul prodotto. Devono prototipare business model per costruire ipotesi da sperimentare sulla natura dei loro clienti, sui canali attraverso cui vogliono essere serviti e sul tipo di relazioni che vogliono intrattenere.
Ma la parola chiave deve essere sperimentazione. Per cui, il fallimento non è una sconfitta, ma una grande lezione. Una start up deve essere pronta a rivedere continuamente le proprie ipotesi ed il proprio business model, partendo da rapidi, continui e piccoli sperimenti iniziali, alla ricerca di una soluzione che sia stabile e scalabile nel tempo. Nel caso di Oybō l’ipotesi di produrre calze spaiate è stata testata attraverso la creazione di piccole serie iniziali, attraverso la sperimentazione sui canali social al fine di misurare la reazione del cliente. Solo oggi, Eusebia e Lionello sentono bisogno di formalizzare un business model e costruire una struttura, ma perché stanno entrano nella fase quattro dello sviluppo di una start-up: la costruzione dell’impresa. Prima di arrivare a ciò, però, hanno scoperto, validato e costruito il mercato per la propria idea.
La seconda lezione è relative al ruolo di start up come Oybō nel riscoprire il saper fare artigiano sedimentato nei molti territori italiani. La politica industriale italiana dell’ultimo ventennio, se ce ne è stata una, ha tentato di traghettare questo Paese nel nuovo millennio sostenendo lo sviluppo di start up innovative, a forte caratterizzazione tecnologica. Per fare ciò, sono stati costruiti dei parchi scientifici e tecnologici e incubatori di varia natura scimmiottando la politica industriali di altri Paesi.
Facendo ciò, però, abbiamo dimenticato la nostra storia di capannoni e garage sotto casa dove si è accumulato un sapere fare manifatturiero ed artigiano. Questi artigiani sanno tuttora fare bene il loro lavoro, ma faticano a confrontarsi con il nuovo mondo. Abbiamo tentato di sostenerli fornendo loro formazione sulle nuove tecnologie, sull’internazionalizzazione. Una formazione, anche in questo caso, adattata dai modelli delle grandi imprese e che poco ha a che fare con la storia della piccola e media impresa artigiana.
Il caso Oybō, da questo punto di vista, dimostra che il cambiamento non deve necessariamente venire dall’interno. Forse spenderemmo meglio i nostri soldi se investissimo in start up come Oybō, che hanno la capacità di confrontarsi con i nuovi media e che nascono globali, ma che riescono a risvegliare l’orgoglio artigiano locale coinvolgendolo e canalizzandolo verso la realizzazione di nuove imprese.
1 Comment
eccezionale idea. bellissimi,